Un’appendice autunnale di tutto rispetto chiude il Ravenna Festival 2012. La sua direttrice, Cristina Mazzavillani Muti, ha pensato di dare un taglio nuovo e inedito alle celebrazioni per il bicentenario verdiano ormai alle porte allestendo in tre serate consecutive la trilogia verdiana (Rigoletto, Trovatore e Traviata), tre opere che rappresentano in pieno la musica del Cigno di Busseto e cronologicamente una pietra miliare nella vita e nello sviluppo musicale di Verdi, che le scrisse nell’arco di soli tre anni (1851-1853) come sull’onda di un unico slancio creativo. Tale unità di concezione già in qualche modo giustifica il progetto, elaborato attraverso una pratica laboratoriale di molti anni.
Le tre opere della trilogia si sono avvicendate sul palcoscenico dell’Alighieri seguendo l’ordine cronologico di composizione. Si è iniziato dunque con Rigoletto, opera talmente densa di idee che Trovatore e Traviata ne rappresentano, dal punto di vista musicale e drammaturgico, una derivazione. Cristina Mazzavillani Muti ha fatto leva, come lei stessa ha detto, sulla «più innovativa e vitale delle risorse: i giovani»: giovani sono i cantanti chiamati a debuttare nei tre capolavori verdiani, i mimi, le ballerine, i musicisti dell’Orchestra Cherubini.
In Rigoletto chiave della lettura registica che ne dà Cristina Muti è la luce: “Ho immaginato un mondo nero, misterioso, una scena scura, in cui non sono le luci a cercare i personaggi, ma questi ad entrare di volta in volta nella luce. Che li isola e li ritaglia dal contesto, li rivela al pubblico, glieli rende familiari, ognuno con il proprio fascino e il proprio mondo interiore. Ognuno con la propria aura, che poi è la luce stessa, la luce dell’anima. Quella luce che irradia dai dipinti di Vermeer. È alla sua pittura che mi sono ispirata, alla morbidezza delle forme e dei colori, cui si rifanno i costumi in scena. E all’intimità del suo mondo: all’innocenza delle sue donne per Gilda, a quegli interni nascosti ad occhi estranei per il segreto familiare di Rigoletto. Il buffone, che non ha nulla della deformità caricaturale cui la tradizione lo ha condannato, è deforme sì, ma dentro, laddove egli stesso costruisce la propria maledizione.”
Le scene di Italo Grassi sono un vago supporto ai personaggi, rivestiti dei bei costumi classici di Alessandro Lai; chi regna sono gli effetti di luce di Vincent Longuemare che, nel mondo nero voluto dalla regista, fanno emergere e vivificare i protagonisti nelle loro tristi e drammatiche vicende. Una regia volutamente minimale e intimista, ma che riesce pienamente nel suo intento, soprattutto in un momento critico per i teatri, in cui è necessario trovare nuove e alternative prospettive registiche che, nel basso costo, realizzino in pieno l’idea originaria dell’autore: questo nuovo allestimento di Rigoletto ci è riuscito in pieno. L'approccio registico prosegue quella linea di ricerca che parte dall’utilizzo strutturale delle più moderne tecnologie, capaci di forzare e trasfigurare lo spazio visivo e sonoro della scena: dalle ultime frontiere del light design alla impalpabile forza evocativa della video arte, fino alle tecniche di spazializzazione del suono; in questo ultimo punto però si è ecceduto, creando nella voce dei cantanti un eco metallica che rendeva innaturale il canto.
Buono il cast. Nel ruolo del duca di Mantova il tenore Giordano Lucà dalla bella voce, bel timbro e buona preparazione, che deve migliorare il fraseggio e nella presenza scenica (ricordiamo che Lucà ha debuttato sulle scene solo lo scorso anno proprio nel ruolo del Duca). Un credibile Rigoletto è stato Francesco Landolfi, all’inizio timido e un po’ impacciato, ha dato il meglio di sé nel Sì vendetta, meritatamente applaudito a lungo. Molto brava la Gilda di Rosa Feola, convincente, sicura, con begli acuti, il suo Caro nome ha estasiato il pubblico. Bella voce e ottima presenza scenica per il basso Luca Dall’Amico in Sparafucile. Ricordiamo anche la più che discreta prova di Clara Calanna in Maddalena. Hanno inoltre partecipato: Isabel De Paoli (Giovanna), Daniel Giulianini (Monterone), Donato Di Gioia (Marullo), Giorgio Trucco (Borsa), Claudio Levantino (Conte di Ceprano), Antonella Carpenito (Contessa), Yelizaveta Milovzorova (Paggio).
Il Coro Lirico Terre Verdiane di Piacenza, diretto dal maestro Corrado Casati, ha reso perfettamente il coro dei cortigiani, senza costume scenico nell’idea della regista secondo cui la cattiveria dei cortigiani si rivede nel mondo attuale in varie forme.
La direzione di Nicola Paszkowski ha lasciato diverse perplessità, nella sua uniformità, retorica e in certi eccessi.
Teatro esaurito, pubblico internazionale molto preso dal dramma verdiano, applausi con trasporto per lo spettacolo e i cantanti.
Seconda opera della trilogia, Il Trovatore è stata riproposta attraverso una lettura moderna ma con continui e precisi rimandi alla tradizione dell'opera e con l'uso strutturale e intensivo di tecnologie multimediali innovative come l'applicazione dell'immagine virtuale e la spazializzazione sonora. Un Trovatore già collaudato che vide la luce nel 2003. Un Trovatore visionario, grazie alle immagini di Ravenna e dei suoi paesaggi (le fotografie sono di Enrico Fedrigoli), trasformate in elementi scenici di grande potenza visuale attraverso le proiezioni in movimento, in una sorta di grafia scenica che scorre parallela alla musica avvolgendo i personaggi. I luoghi bizantini e le valli, da dove emergono archeologie industriali, con sinistri bagliori di fuoco riflessi su immobili specchi d'acqua iridescenti di petrolio, le antiche basiliche, il silenzio delle paludi e delle pinete, le ruggini delle archeologie industriali o il metallo scintillante dei moderni opifici si sovrappongono in una stratificazione onirica di agitate visioni: la Spagna di Manrico si sposta in una Ravenna di sempre, dalle cripte bizantine alle zone industriali, nell’idea della perpetua modernità della città adriatica e della perpetua modernità dell’opera lirica; la vicenda diventa perciò senza luogo né tempo in un'altrettanta atemporale Ravenna, in un allestimento dominato dalle immagini che diventano scenografie virtuali con precisi rimandi alle originali annotazioni del libretto di Salvatore Cammarano.
Un lavoro che si è potuto realizzare grazie ad un’equipe che traduce in effetti visivi la regia, Vincent Longuemare alle luci, Alessandro Lai ai costumi, classici ma atemporali, Paolo Micciché visual director, che ha trasformato la staticità dei soggetti fotografici in elementi scenici, dando loro profondità e movimento, coadiuvato dalle elaborazioni grafiche di Luca Dalcò; Enrico Fedrigoli immagini fotografiche, Alvise Vidolin per la spazializzazione dei suoni.
Una regia che fa immergere lo spettatore nell’opera, assaporare i caratteri dei personaggi e coinvolge nel dramma che si sta raccontando. Da rilevare la fissità e la poca visibilità del coro che tendono a rendere una eccessiva staticità alla vicenda. Di forte impatto la nudità scenica al momento del Di quella pira, terminata con un abbagliante serie di fari diretti contro il pubblico.
Sempre un cast giovane, con alcune voci che fanno ben sperare. Nel ruolo di Manrico il tenore Luciano Ganci si è dimostrato fin da subito insicuro negli acuti e nel regolare la potenza vocale, nonostante la bella voce; purtroppo il suo Di quella pira ha avuto un esito non molto felice. La Leonora della georgiana Anna Kasyan non ha avuto cedimenti, ma anche nelle arie più difficili ha saputo dimostrare una voce sicura con acuti ben impostati. Dario Solari, nel Conte di Luna, è stata indubbiamente una delle voci migliori della serata, insieme ad Anna Malavasi in una più che credibile Azucena. Per Luca Dall’Amico in Ferrando confermiamo il giudizio positivo avuto in Rigoletto. Ricordiamo anche Isabel De Paoli in Ines e Giorgio Trucco in Ruiz. Sempre ineccepibile il Coro Lirico Terre Verdiane di Piacenza, diretto dal maestro Corrado Casati.
Dobbiamo, invece, ripeterci anche per la direzione del maestro Nicola Paszkowski, talmente eccessiva, che ha messo a dura prova la voce dei cantanti.
In un teatro Alighieri sempre pieno e sempre più internazionale pubblico un po’ freddo per un allestimento innovativo.
Chiude la trilogia La Traviata: il mito e il dramma di Violetta, nella regia di Cristina Mazzavillani Muti che risale al 2008 e ripresa per l’occasione, sono immersi in una pervasiva atmosfera di frenesia parigina, senza rinunciare però a quella voglia di sperimentare che fin dal 2008 ne ha caratterizzato l’innovativo gesto registico. Altro importantissimo elemento chiave dell’idea registica è quello del riflesso, come dice infatti la regista: “Perché in lei si specchiano, si riflettono generazioni di donne, secoli di donne, sfruttate, giudicate, usate, violentate e mai capite. Le donne del passato, di oggi, e anche quelle a venire”. Infatti l’immagine di Violetta si moltiplica, virtualmente e fisicamente, nel riflesso dei grandi specchi che dominano e compongono la scena, ne amplificano i gesti e le emozioni. In una circolarità narrativa che ne vuole restituire tutta la tremenda attualità: la Violetta immobile, innocente, pronta per la festa che apre l’opera, è già quella dell’epilogo, il suo letto è già la sua tomba e la sua storia è vita e ricordo insieme, gira su se stessa, senza fine: eterna. Alla profondità dei sentimenti di Violetta si contrappone l’ottusità di Alfredo, e quella di Germont padre, vittima e carnefice della morale borghese. In questo turbine di vita unica costante fissa è il coro che sta a guardare, dai palchi di proscenio e dalle barcacce, e giudica immobile gli eventi.
In questa nuda scena, che potrebbe essere la nudità dell’anima dei protagonisti si ergono 11 grandi specchi rotanti che caratterizzano la essenzialità in cui gioca un ruolo fondamentale la luce, realizzata dall’arte di Vincent Longuemare; ha collaborato anche a questo allestimento il sound design di Alvise Vidolin. Le scene sono di Italo Grassi e gli eleganti costumi di Alessandro Lai.
Sempre un cast molto giovane. Nel ruolo di Violetta Valéry una bravissima Monica Tarone, meritatamente applauditissima, ha dato una prova veramente degna, bella la voce calda e drammatica, puliti gli acuti, pienamente nella parte: un vero piacere ascoltarla. Il turco Bulent Bezduz in Alfredo non convince pienamente, bella la presenza, ma la voce tende a non sentirsi. Ottima prova per un convincente Simone Piazzola in Giorgio Germont, una voce calda, corposa, profonda ha dato vita a un personaggio drammaticamente reale. Buona anche la prova di Donato Di Gioia in Duphol. Ricordiamo inoltre: Isabel De Paoli (Flora), Antonella Carpenito (Annina), Giorgio Trucco (Gastone), Claudio Levantino (Obigny) e Federico Benetti (Dottore).
Molto buona la prova del Coro Lirico Terre Verdiane di Piacenza preparato da Corrado Casati, collocato sui palchi di proscenio.
La direzione del maestro Nicola Paszkowski, alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, indubbiamente migliore rispetto alle precedenti opere, continua a non convincere per la sua eccessiva sonorità in più punti.
È infine da registrare il successo del progetto Verdi Web, che ha aperto le porte dell’intenso calendario di prove a 18 ragazzi, ai quali è stata offerta l’opportunità di esprimersi in una inconsueta lettura del teatro d’opera tramite fotografie, video e testi. La loro originale lettura del teatro d’opera è testimoniata dai lavori che i partecipanti inseriscono sul sito www.verdiweb.it. Dieci aspiranti fotografi si sono affiancano, coi loro scatti rubati alle prove, alle immagini e agli appunti di due giovani videomaker che stanno seguendo le prove di Rigoletto, Trovatore e Traviata, offrendo al pubblico un punto di vista originale e privilegiato sul lavoro che precede la messa in scena di un’opera. Testi che vanno da brevi note fino ad approfondite riflessioni raccontano, giorno dopo giorno, come nasce un’opera e quali visioni può suscitare a sei ragazzi che amano.
Un titolo simile e con tutte le premesse dell’allestimento non poteva non riempire all’inverosimile il teatro ravennate con un pubblico sempre più internazionale, che ha apprezzato i cantanti e la produzione.